Una premessa: i metatag
I metatag sono componenti del codice utilizzato nella programmazione di un sito internet (e, quindi, invisibili ai visitatori) e contengono parole chiave finalizzate ad essere individuate dal software dei motori di ricerca, che da esse ricava informazioni riguardanti il contenuto del sito stesso, al fine di “indicizzarlo”, cioè renderlo individuabile agli utenti che cercano quelle determinate parole nel motore di ricerca stesso. L’importanza dei metatag è rilevante, in quanto, se ben utilizzati, possono fare la differenza nel dare visibilità ad un sito rispetto ad un altro che contenga informazioni simili riguardanti la stessa parola chiave immessa dall’utente.
Per questo motivo, l’uso ingannevole come metatag di un marchio altrui configura una fattispecie di contraffazione del marchio. Infatti, sussiste un rischio di associazione tra i due marchi, poiché questo tipo di contraffazione – detta anche invisible trademark infringement – può indurre un visitatore che esegue la ricerca di un determinato marchio a credere che il proprietario del sito, a cui è arrivato perché attratto ingannevolmente dall’utilizzo illegittimo del segno nei metatag, sia anch’esso titolare del marchio, oppure che i prodotti presenti nel sito siano ad esso in qualche modo collegati, o che presentino caratteristiche simili.
Inoltre, in questi casi si può configurare anche la fattispecie di concorrenza sleale per sfruttamento parassitario previsto dall’art. 2598, n. 3, Cod. Civ. Secondo la giurisprudenza, infatti, costituisce atto di concorrenza sleale l’utilizzo del nome di un concorrente come metatag nelle pagine pubblicitarie di un sito web.
L’utilizzo illecito delle parole chiave in “Google Ads”
Il servizio a pagamento “Ads”, conosciuto come “AdWords” fino al 2018 e offerto da Google sul suo motore di ricerca, può essere considerato un caso particolare di utilizzo di metatag. Si tratta infatti di un software che consente alle imprese di inserire link pubblicizzati all’interno delle pagine di ricerca di Google, attraverso la selezione di una o più parole chiave, che fanno comparire gli annunci agli utenti di Google che inseriscono proprio quelle parole nel motore di ricerca. Tali link pubblicitari appaiono nella sezione “link sponsorizzati” situata sopra o sotto i risultati di ricerca non a pagamento. Gli inserzionisti, quindi, selezionano la parola (o le parole) chiave da inserire e, nel momento in cui l’utente effettua la ricerca inserendo anche solo una di esse, il link pubblicitario appare tra i risultati in posizione privilegiata.
Nel caso in cui l’inserzionista scelga, tra le parole chiave per sponsorizzare il proprio sito, un marchio di cui non è titolare, secondo la giurisprudenza italiana e comunitaria può trattarsi, in alcuni casi, di un atto di concorrenza sleale e di contraffazione di marchio.
In particolare, la Corte Europea (v. Sent. del 22 settembre 2011 nel caso C‑323/09) ha analizzato le funzioni del marchio e le modalità con cui le Ads possono violarle.
Violazione della funzione di indicazione d’origine del marchio
Tale violazione sussiste quando l’annuncio non consente (o consente soltanto difficilmente) all’utente di internet normalmente informato e ragionevolmente attento di sapere se i prodotti o i servizi a cui l’annuncio si riferisce provengano dal titolare del marchio o da un’impresa economicamente collegata a quest’ultimo oppure, al contrario, da un terzo.
In questo caso, la situazione che si viene a creare ingenera confusione all’utente riguardo l’origine dei prodotti o dei servizi in questione. E questo può succedere non solo quando l’annuncio del terzo alluda all’esistenza di un collegamento economico con il titolare del marchio, ma anche quando l’annuncio sia talmente vago sull’origine dei prodotti o dei servizi in questione che un utente di Internet normalmente informato e ragionevolmente attento non sia in grado di rilevare che l’inserzionista sia un terzo rispetto al titolare del marchio o economicamente collegato a quest’ultimo.
Violazione della funzione di pubblicità del marchio
Quanto alla violazione della funzione di pubblicità del marchio, questa sussiste nel caso in cui il titolare di un marchio che iscrive il proprio segno come parola chiave presso il fornitore del servizio “Ads”, al fine di far apparire un annuncio nella rubrica “link sponsorizzati”, deve – qualora il suo marchio sia stato scelto come parola chiave da un concorrente – pagare un prezzo per click più elevato rispetto a quello di detto concorrente se vuole ottenere che il suo annuncio compaia prima di quello di quest’ultimo.
Tale circostanza costringe il titolare del marchio ad intensificare i propri sforzi pubblicitari per mantenere o aumentare la propria visibilità presso i consumatori.
Violazione della funzione di investimento del marchio
Da ultimo, la funzione di investimento del marchio viene violata quando un terzo (ad es., un concorrente) utilizzi un segno identico a quello del titolare del marchio per prodotti o servizi identici a quelli per i quali detto marchio è stato registrato e intralci in modo sostanziale l’utilizzo, da parte del medesimo titolare, del proprio marchio per acquisire o mantenere una reputazione idonea ad attirare e fidelizzare i consumatori.
In altri termini, la funzione di investimento di un marchio che gode di notorietà è violata qualora l’uso da parte del terzo di un segno identico a tale segno per prodotti o servizi identici leda la reputazione del marchio in questione, mettendone in pericolo la conservazione. Non basta, tuttavia, che l’uso da parte del terzo induca taluni consumatori ad abbandonare i prodotti o servizi contrassegnati dal marchio, ma occorre che il terzo tragga così indebitamente vantaggio dal carattere distintivo o dalla notorietà del marchio (parassitismo) oppure qualora tale pubblicità arrechi pregiudizio a detto carattere distintivo (diluizione) o a detta notorietà (corrosione).
Responsabilità del provider di servizi per le violazioni su “Google Ads”
La Corte di Giustizia UE, nei casi in cui l’uso di “Ads” si presti a violazioni di marchi altrui da parte degli inserzionisti, ha affermato che il provider non è responsabile delle violazioni se non ha svolto un ruolo attivo che gli abbia permesso di avere conoscenza o controllo dei dati memorizzati, limitandosi quindi a memorizzare i dati su richiesta di un inserzionista. Tuttavia, occorre che il provider, essendo venuto a conoscenza della natura illecita dell’attività dell’inserzionista, non abbia omesso di rimuovere subito i dati incriminati, o disabilitare l’accesso agli stessi.
Ciò implica che la responsabilità del provider sussiste in tutti i casi in cui quest’ultimo svolga un ruolo nella redazione del messaggio che accompagna il link pubblicitario o nella selezione delle parole chiave o abbia prestato assistenza nell’ottimizzare la presentazione delle offerte in vendita e nel promuoverle.