Il regime ammesso dal Codice della Proprietà Industriale

L’art. 6, comma 1, del D.Lgs. 30/2005 (il “Codice della Proprietà Industriale” o “c.p.i.”) stabilisce che se un diritto di proprietà industriale, quindi anche un marchio, appartiene a più soggetti, i diritti e le facoltà derivanti dallo sfruttamento della privativa sono regolati dalle disposizioni del Codice Civile relative alla comunione, se compatibili.

L’ammissione nel nostro ordinamento della comunione e del couso del marchio da parte di soggetti diversi è avvenuta con la riforma della legge sui marchi del 1992. In precedenza, la normativa risalente al 1942 si proponeva unicamente l’intento di evitare confusione nel pubblico dei consumatori e, pertanto, non era possibile che un medesimo segno potesse essere utilizzato da soggetti indipendenti per contraddistinguere prodotti e servizi nel medesimo ambito di esclusiva.

Sebbene anche dopo la riforma del 1992 parte della dottrina riteneva che la contitolarità di un segno non fosse compatibile con la sua funzione distintiva di un’unica origine di prodotti o servizi, oggi il c.p.i. ammette l’applicabilità delle norme civilistiche sulla comunione ordinaria.

In ambito comunitario, il Regolamento UE 2017/1001 sul marchio europeo riconosce espressamente la possibilità che un marchio possa avere più contitolari, prevedendo in tale ipotesi un rinvio alla legge nazionale del primo contitolare iscritto nel registro.

Le regole della comunione

Tornando all’ambito domestico, dunque, assumono particolare rilievo gli artt. 1102 sulla partecipazione della cosa comune, nonché gli artt. 1105 e 1108 Cod. Civ. sull’amministrazione della cosa comune.

L’art. 1102 Cod. Civ.

Premesso che il c.p.i. accoglie una presunzione iuris tantum di uguaglianza delle quote per tutti i diritti di proprietà industriale appartenenti a più soggetti, la disciplina dell’art. 1102 Cod. Civ. prevede il diritto di ciascun partecipante alla comunione di servirsi della cosa comune senza alterarne la destinazione e senza impedire agli altri partecipanti di farne parimenti uso.

L’esercizio di tale diritto prevede dunque la possibilità di sfruttare il marchio direttamente, senza il consenso degli altri contitolari.

Gli artt. 1105 e 1108 Cod. Civ.

Per quanto concerne gli artt. 1105 e 1108 Cod. Civ., questi disciplinano il grado di partecipazione dei comunisti a seconda dell’atto che si intende compiere sul bene comune. In particolare, l’art. 1105 Cod. Civ. stabilisce, per gli atti di ordinaria amministrazione, che le relative deliberazioni devono essere assunte dalla maggioranza dei partecipanti, calcolata secondo il valore delle loro quote. L’art. 1108 Cod. Civ., invece, prevede, con riferimento alle innovazioni e gli altri atti di straordinaria amministrazione, una maggioranza diversa, cioè la maggioranza dei partecipanti che rappresenti almeno due terzi del valore complessivo della cosa comune e, in alcuni casi, l’unanimità dei comunisti.

Sul punto, la dottrina ha individuato, con riferimento alla comunione di marchio, gli atti di ordinaria e straordinaria amministrazione. In particolare, sarebbero atti di ordinaria amministrazione quelli non necessari al godimento del marchio comune e che si limitano alla regolare gestione dello stesso. Tra questi, la cura dei rapporti con i licenziatari e l’estensione del marchio per altri servizi o prodotti della stessa specie di quelli già contraddistinti; sarebbero invece atti di straordinaria amministrazione gli atti che importano innovazione (ad es., la registrazione di un marchio di fatto nell’ipotesi in cui il marchio comune abbia assunto rinomanza) o che mutano la destinazione (ad es., gli atti che modificano il messaggio insito nel segno).

La comunione originaria o derivata del marchio

Come per la comunione civile, anche quella del marchio può essere originaria o derivata.
Il primo caso avviene quando privativa viene chiesta da più soggetti con un’unica domanda.
Il secondo caso, invece, si verifica qualora il titolo sia stato acquistato, pro quota, da più persone per atto tra vivi o mortis causa.